L’indirizzo di casa

giugno 19, 2010

Le storie traslocano nella casa nuova.

D’ora in poi le leggete qui:

http://www.lestoriedimitia.it/wp/


Una pacifica agitazione

giugno 18, 2010

Ti guardo e le budella si mettono in movimento, il succo gastrico circola, su e giù, fa caldo dentro questa pancia.

Ti guardo camminare verso di me e dentro la testa sono solo un metro che calcola i centimetri che separano la mia pelle dalla tua.

La sentirai, tutta questa agitazione di budella, di succhi, di scossette, di fame, che ho dentro?

Lo vedrai che sto sudando, che ho caldo, che ho il cervello, che ogni centimetro che scompare, entra in una modalità fatta di sete di midollo, che ho le ossa molli?

Lo vedrai che sono qui, imbarazzata, con questa pancia brontolona, che detta i miei passi e mi incita a ridurli in fretta questi centimetri?

Mi stai davanti e mi sorridi, adesso, e questa fame dalle ossa passa a muover la bocca, le dice che c’è da fare e da dare.

Per aver pace.


La carogna

giugno 10, 2010

Edoardo si accese una sigaretta, poi andò a cercare la coperta che teneva sulle ginocchia per tirarsela verso la pancia. Dopo una giornata caldissima era arrivato chissà da dove un venticello fresco, quasi screanzato e sentiva i brividi addosso. Era mezzanotte ma Edoardo voleva restare ancora seduto in veranda a sentir il rumore degli alberi.

Dei passi nel prato davanti casa. Edoardo girò la testa, fermò la mano che stava portando la sigaretta alla bocca. “Chi è?”, disse guardando in direzione degli alberi. Non ottenne risposta. Eppure il rumore l’aveva sentito. Passi lievi di piede leggero che cammina a piedi nudi sull’erba bagnata della sera. Passi convinti di chi non sta cercando di non farsi sentire. La camminata di chi non ha paura. “Chi è ?”, tornò a ripetere.
Ottenne solo il silenzio come risposta.
Poi sentì caldo al viso, la sensazione di una mano che sfiora guancia e capelli. “Emma, sei tu?”

Edoardo si portò le mani agli occhi, con un moto di stizza. Si stupì di ricordare ancora quel nome. Avrebbe voluto cavarli e lavarli, uno ad uno, quegli occhi che non servivano a niente.Si mise a girar la testa da un lato all’altro della veranda, come se nell’oscillazione nervosa qualcosa si potesse intravedere. Un bagliore, un movimento. Niente, c’era solo buio. E la carogna, dentro.

Si alzò di scatto dalla sedia e andò, con le mani, a cercare il bastone appoggiato alla balaustra. Cominciò a camminare su e giù per la veranda. Il bastone picchiava a terra, sul legno del terrazzo, con colpi irrequieti. Dentro gli stava montando quel fastidio, quel bisogno di distruggere. Gli sarebbe piaciuto aver in mano un bastone grosso, nodoso, e cominciar a tirar colpi al cielo, agli alberi, ai pensieri strani che gli passavano per la testa. Fino a romperli, uno per uno. Si ritrovò davanti alla sedia, la riconobbe dal suono diverso del colpo del bastone sul legno. E allora tirò un calcio, fortissimo, che fece volar a terra la sedia, con un botto rumoroso. Girò la testa verso il giardino, cercando di respirare. Doveva calmarsi. Avrebbe pagato _ pensò _ chissà che cosa per vedere un lampo di luce, un raggio di sole che gli facesse lacrimare l’occhio, un colore.

La pelle di Emma. Ancora lei. Per alcuni giorni, dopo l’incidente in moto, gli amici gli avevano portato sue notizie. L’avevano vista al mare, dal giornalaio, al bar. Gli occhi bassi, coperti dagli occhiali. Piangeva.
Ernesto lo prese in disparte: “Se vuoi vado io, le spiego tutto e la avviso che sei in ospedale. Te la porto”.
Ma Edoardo lo zittì: “Non è importante, io non ci penso. Perché dovete farlo voi?”. E così i discorsi, cadendo nel buio, finirono con l’essere dimenticati. Il buio si era portato via tutto, come quando butti la sigaretta nel cesso e tiri lo sciacquone.

Edoardo sentì la carogna agitargli le budella. Provava odio. Per tutto. Persino per il nero che gli era amico fidato. E si ritrovò a pensare che avrebbe volentieri spaccato qualsiasi cosa pur di riveder quegli occhi verdi, i capelli castani, il naso. Avrebbe buttato giù un muro a testate pur di rivedere quel culo che gli sorrideva sempre. L’aveva sognato, qualche volta, e si era eccitato anche se era solo in penombra. Per calmarsi aveva dovuto masturbarsi. Emma gli aveva fatto da subito quell’effetto. Lei gli era apparsa davanti un giorno. E lui da quel momento aveva sentito solo fame. Delle labbra di Emma, del corpo di Emma, del suo odore. La faccia in mezzo alle gambe.

“Basta”, urlò Edoardo verso gli alberi nel giardino e si mise a sbattere il bastone, una, tre, venti volte, contro la balaustra della veranda. Lei era solo un passatempo. Non era bella, non era dolce, non aveva uno sguardo che lo spaccava. Non era vero che ogni volta che la sfiorava e la sentiva ridere, si sentiva fatto di vetro e che quando lei lo stringeva forte e gli ansimava all’orecchio, lui si sentiva pane. Non aveva fame, non voleva sfamare. Non sentiva niente, non voleva niente. Portò la mano, tra le gambe, sentì la carogna gonfiargli il cazzo e fargli male. Scosse la testa velocemente. Solo il buio poteva calmarlo.


L’incrocio

Maggio 16, 2010

Le giuro, signor commissario, che non è come pensa lei, io quell’uomo non lo conosco.
Ah, lei sa che ci ho vissuto assieme due anni. Gliel’ha detto la vicina.
750 giorni, commissario. Abbiamo vissuto assieme due anni e venti giorni, esatti.
Ecco, io so chi è, ma quando è successa quella cosa lì, io non lo sapevo, quindi se non sapevo chi era come faceva ad esserci intenzione da parte mia?
Non mi crede, lo leggo nei suoi occhi.
E del resto, in condizioni normali farei fatica a crederci pure io,
se non fosse che è capitato proprio a me e quindi le posso testimoniare che è tutto vero.
Ho agito con dolo, lei dice.
Dolo è un paese vicino a casa mia, commissario. Ci volevo comprare casa, anni fa. Perché c’è il fiume. Mi viene da sorridere a sentir come lo pronuncia, commissario, Dolo, ma lei ha la faccia dura di chi ha deciso che io ho torto e vado punita.
Che mi vuole mandare in galera? Aspetti, non corra subito alla soluzione.
Le cose sono andate in modo diverso da come le vede lei, mi lasci almeno provare a raccontarglielo un’altra volta.
E stavolta lei mi deve seguire bene, con attenzione.
Non si fermi alle evidenze, vada oltre per una volta. Provi ad immaginarsela la scena di quella cosa lì.
Allora, io ero in macchina, ferma all’incrocio.
La radio trasmetteva “I’m on fire” di Bruce Springsteen. Bella canzone, vero?
Ah, a lei non piace Springsteen. Strano, è la prima persona che sento dire una cosa del genere. Comunque, dire
quel che ci piace o meno non ci porta diritti in galera, per ora. Niente sarcasmo, ok.
Allora, dicevo. Ero ferma al semaforo, c’era il rosso. Poi è scattato il verde. Ho girato l’occhio verso sinistra mentre facevo la curva per svoltare alla prima traversa a destra e allora ho visto quell’uomo passeggiare sull’altro lato del marciapiede con il suo cagnolino, al guinzaglio.
Chi era? Non lo so mica. Aveva una faccia anonima, di quelle che ti passano davanti tutti i giorni centinaia di volte e non ti provocano
manco un oh di interesse. Nessun effetto, glielo posso assicurare.
Perchè ho girato la faccia verso di lui, allora? Non lo so. Non riesco a darle una motivazione, è solo successo. Forse volevo vedere se la vetrina del negozio di scarpe era stata messa a posto, che la settimana prima i ladri hanno sfondato il vetro per portarsi via la cassa. L’ho letto sul giornale.
Sì, deve esser stato per quello che ho girato la testa. Ma non c’è stato un pensiero a dettare il movimento, gliel’ho detto che stavo cantando. Sì, cantavo Springsteen. Quello che a lei non piace.

Ho guardato l’uomo, poi la vetrina e niente, ho girato l’occhio verso destra e ho visto la ruota della bicicletta sulle strisce pedonali. E allora per evitare di finire contro la bicicletta, ho sterzato tutto a sinistra e il sobbalzo della ruota della macchina sul marciapiede
è arrivato subito e mi ha sorpreso per la fretta che ci ha messo e non sono riuscita a frenare, il volante vibrava tutto e io non lo tenevo.
Poi ho sbattuto contro l’angolo del negozio di scarpe ed è scoppiato l’airbag. Un paio di minuti sono rimasta con gli occhi chiusi, a sentire il mio respiro, muovendo le dita dei piedi per capire se ero viva o stavo andandomene all’aldilà.
Non c’era alcun tunnel di luce ma solo nero nei miei occhi e allora li ho aperti e ho alzato la faccia dal volante e ho visto un sacco di gente che guardava dentro dal finestrino e un signore che provava ad aprire la portiera della macchina e poi ho visto quell’uomo a terra, che urlava, che si teneva la gamba e mi urlava contro che ero
una bastarda.
Ma glielo giuro, neanche in quel momento, l’ho riconosciuto. Non vedevo altro che la bocca aperta che potevo veder l’ugola vibrare e poi il fondo nero da cui usciva quella voce rancorosa. Nessun tunnel di luce. Mi son detta che era meglio aspettare prima di scendere.

Lei continua a guardarmi con la faccia di chi non crede per niente a quello che dico, vero?
Ero dentro la macchina, mi toccavo la fronte, che era tutta sudata e fredda, e mi guardavo le gambe.
Quell’uomo invece steso sul marciapiede continuava a tenersi il ginocchio e a rotolare.
Poi è arrivata l’ambulanza, ho sentito il rumore della sirena e subito dopo era a fianco della macchina. Allora ho alzato la sicura della porta e ho fatto per scendere dalla macchina.
“Barbara sei una stronza, io ti rovino”, ha urlato quello a terra
e mi son fermata lì con una gamba giù e l’altra dentro la macchina a fissare quello sconosciuto che sapeva perfettamente come mi chiamavo. E l’ho fissato, perché volevo capire come aveva fatto a dire un nome a caso, azzeccando il mio. Ed è stato allora, che ho intuito in quel suo modo di scandire le lettere che compongono il mio nome, qualcosa di assolutamente familiare. E fastidioso.
Solo allora ho visto Paolo, l’uomo con cui ho vissuto per due anni. Son passati sette anni, commissario, non un giorno. Le persone cambiano, lui poi adesso è praticamente calvo e porta gli occhiali. Anche io sono diversa, sono dimagrita dieci chili.
E’ successo che mi sono dimenticata di lui. Sì. Questo le sto spiegando. Le pare impossibile… Anche a me pare incredibile che a lei non piaccia Springsteen, dottore.

Sette anni e non mi sono mai fermata una volta a pensare alla sua faccia. Mai una volta l’ho sognata. Lui nei miei sogni, all’
inizio, c’è capitato ma non aveva mica volto. Succede. Mi sono dimenticata di lui, della sua faccia e del suo corpo.
Del resto, non ne sento assolutamente la mancanza.
Solo la voce, quel modo fastidioso di scandire il mio nome, quello che utilizzava quando doveva rimproverarmi, e le assicuro che capitava tutti i giorni, non l’ho mai dimenticato. E solo quando mi ha urlato contro , l’ho riconosciuto.
E’ andata così.
Non c’era giorno, in quei 750, dottore, che non partisse la critica, per qualcosa che facevo o non facevo.
Non c’era volta in quei due anni e venti giorni che ho vissuto con lui, stirandogli le camicie e preparandogli la colazione, che non mi trovasse imperfetta.
750 giorni, dottore, di recriminazioni, critiche e sfottò. Per come ero, per come volevo essere.
Li ho contati, sì, i giorni che ho passato con lui.
E quindi se ricordo, lei dice, c’è stata eccome intenzionalità da parte mia. Potevo far a meno di sposarmi, eh? Ma guardi che l’anno che abbiamo passato da fidanzati, prima del matrimonio, Paolo mica era così. Anzitutto il mio nome lo sussurrava, ansimandomi sul collo e chiedendomi se gliene davo ancora…Poi era gentile, veniva a prendermi al lavoro. Si andava al cinema, poi in pizzeria e poi a far l’amore in Riviera del Brenta, in uno dei tanti punti poco illuminati della Statale. Lui preferiva farlo vicino alla villa La Malcontenta, che gli piaceva tanto. Mi diceva anche che un giorno me l’avrebbe comprata. E sussurrava il mio nome, baciandomi il collo, prima di aprir la portiera e lasciarmi davanti casa. Poi, da sposati, siamo andati a vivere assieme in un appartamentino in centro. E io mi sono accorta subito che non era mica l’uomo che veniva a prendermi al lavoro, che mi trovava irresistibile e unica. Non sapevo mica chi era quell’individuo che mi trovavo attorno. Ha cominciato a guardar tutto quello che facevo, a criticare ogni gesto. Sussurri? Manco un fiato sporco di vino. Ho resistito, gli ho dato il beneficio del dubbio; ho pensato che anche per lui, abituato a star da solo, era difficile all’inizio vivere in due.
Poi, alla fine, non ce l’ho fatta più e l’ho cancellato.
Puff, via. Sette anni di pace.

Insomma, con tutta la fretta che ho avuto di dimenticare il mio ex marito dovevo andare ad incontrarlo ad un incrocio,
mentre sterzavo per evitare di investire un ciclista. Se è successa quella cosa lì, è solo colpa della sfortuna.
Nessun dolo, nessuna intenzione. Solo sfiga.

Rida pure, dottore. Lo sfortunato è il poveretto che ho investito.
La pensi come vuole, lei che pretende di essere capito per la sua totale mancanza di orecchio musicale, visto come mi tratta
Bruce Springsteen.
Lei dice che se la passa peggio quell’uomo, con il bacino fratturato. Sicuro? A lui basterà un gesso e un pochino di fisioterapia per riprendersi.
A me, invece, ci pensi un attimo, lei che è così certo di tutto, chi è che mi ridà due anni e venti giorni di vita?


La cleptomane

Maggio 5, 2010

La prima volta era successo con un paio di mutande, di cotone, grigie. Lui le aveva lasciate sul pavimento, a fianco del letto, e lei, che si era alzata per andare al bagno in piena notte, le aveva calpestate. Poi le aveva raccolte e annusate e ci aveva ritrovato il suo odore. Un misto di melissa e pepe bianco.
Quell’odore la lasciava senza fiato, capace solo di chiedere, a voce bassa, ancora. Spesso ci aggiungeva un per favore.
Stringeva le mutande tra le mani quando si mise a sedere sulla tazza del water e fu un gesto istintivo allungare il braccio e metterle nel primo cassetto a destra del mobile del bagno.
Due giorni dopo, cercando una forcina per i capelli, riaprì quel cassetto e ci trovò dentro le mutande grigie e si disse che era stata sicuramente colpa della sonnolenza se erano lì dentro.
Lui, alcuni giorni dopo, tornò ma lei non gli disse niente e manco gliele restituì. Fece solo finta di non ricordarsene più.
Invece, quando era sola, ogni tanto apriva il cassetto e toccava le mutande e sentiva più lieve l’assenza di lui che era sempre in viaggio e solo ogni tanto, quando poteva, tornava. Dopo le mutande di cotone, fu la volta della maglietta bianca, del fazzoletto con le iniziali ricamate, della cravatta blu e di un calzino nero. Tutti finirono nel cassetto del bagno, a farsi compagnia.
Un pezzo di cotone non fa un corpo; una cravatta non ricrea un volto che rasserena. Lei lo sapeva e si sentiva stupida a praticare questa sorta di cleptomania amorosa, ma quando arrivava la smania dell’arraffamento lei sapeva solo agire, lasciando i sensi di colpa e la vergogna ai giorni successivi. Quando era sola e apriva il cassetto, l’euforia del ritrovare intatto l’odore di lui, giustificava, man mano che la consapevolezza cresceva, il senso di vergogna per la sottrazione. Talvolta, però, il rossore le accendeva il viso quando incrociava il suo stesso sguardo allo specchio, mentre annusava la maglietta bianca di lui.
Allora doveva richiudere in fretta il cassetto e non pensarci più, alla smania.

Non aveva mai rubato niente nella sua vita, neanche una caramella dal cesto sul banco del panificio dove andava, quando era piccola, a comperare il pane. Al cesto non ci arrivava e lei lo fissava dal basso e se lo immaginava pieno di dolci succosi e grossi, da masticare lentamente, con la guancia gonfia di piacere. Un giorno, una signora urtò il cestino e le caramelle caddero a terra, spargendosi sul pavimento, e lei, incitata dalla madre, le raccolse tutte e poi le passò alla signora, affinché le mettesse a posto. Uscendo si accorse di una caramella finita vicino alla porta e la prese. Aveva una gran voglia di sentire che sapore aveva. Ma sua madre, che non la perdeva mai di vista, le ordinò di consegnare la caramella e lei subito, ubbidiente, la rimise sul pianale del bancone senza alzar lo sguardo verso il panettiere che la invitava a tenerla.

Crescendo si era sempre comportata bene, senza una marachella, una piccola follia.
Era una persona per bene. Si era laureata con il massimo dei voti, aveva trovato un posto da segretaria in una azienda e si pagava il mutuo dell’appartamento, comperato a Marcon, in quello che era un paesino destinato a diventar anonima periferia della grande città. Alla soglia dei quarant’anni si sentiva, a volte, una donna noiosa, che non aveva provato mai l’euforia di un gesto non dettato dal suo cervello fin troppo ben educato.
Si sentiva una che non aveva mai vissuto davvero, che non sapeva cosa fosse l’euforia.
La pensava così davanti al caffè della mattina, nelle giornate freneticamente noiose, che seguirono, finché non incrociò lui. Erano uno a fianco all’altra al bancone del bar davanti al tribunale. Lui beveva un cappuccino, lei il secondo caffè della mattina. Lui la fissò per un attimo, lei si sentì osservata e girando lo sguardo lo vide sorridere prima di andarsene.
Lei sentì il cervello spegnersi, e qualcos’altro tirare, dentro, come un filo che imponeva un sussulto, ritmico, dalla vagina fino alla pancia, e si mise a camminargli dietro, seguendo i suoi passi e conteggiando il numero di strattoni interni, finché non vide dove lui lavorava. E poi tornò indietro da sola, pensando nei giorni seguenti spesso a quel sorriso, e ritornò altrettante volte sui passi compiuti, frenetici ma non più noiosi, finché non lo incrociò di nuovo, per strada e lui le sorrise ancora, passandole a fianco e poi si girò chiedendole se aveva bisogno di aiuto. E a quella domanda, gli strattoni interni tornarono a farsi sentire e lei si udì perfettamente dire: “ Cercavo te, in verità”.
Quei sussulti interni tornarono, poi, ogni volta che lo vedeva, lo sfiorava e chiudeva gli occhi. Duravano, fin quando, sfinita, gli si addormentava a fianco dopo avergli chiesto ancora, per favore. Ora resistevano anche all’oblio della sua partenza, al corpo che si fredda e rallenta il sussulto mentre il cervello cerca di riguadagnarsi lo spazio che conviene.
Bastava aprire il cassetto, ammirare il bottino, annusarne il profumo e il ritmo tornava, tra vagina e pancia, a scandire le ore.


Il sogno del partigiano Saetta – ebook “Schegge di liberazione”

aprile 23, 2010

Cammino lungo un sentiero in gronda lagunare. E’ una di quelle giornate con le nuvole grandi e basse che si possono toccare con una mano e penso che se ne prendessi un pezzetto, saprebbe di meringa. Giornate perfette per annusare l’aria che sa di salso. Ad un certo punto mi fermo. Davanti a me, un tulipano rosso che cresce proprio in mezzo alla terra battuta. A me piacciono i tulipani, lo guardo stupita e ammirata. In barena non crescono fiori così. E allora mi viene voglia di strapparlo quel tulipano e portarmelo a casa e mentre mi piego per farlo, mi accorgo che lungo lo stelo ci passeggia un verme di terra, cicciotto e marrone. E allora mi dico, tra me e me, che sono una stronza, che io mi arrabbierei se mi strappassero via la terra che calpesto.
E lascio quel tulipano alla sua terra. Mi limito ad accarezzare i polposi petali e il verme si avvicina al mio dito strisciandomi incontro.

“Hai fatto bene. I fiori lasciali alla terra”.

Quelle parole mi arrivano da dietro le spalle. Mi giro di scatto verso la voce e lo vedo. Un uomo con i baffi neri e il cappotto di lana marrone che ci sta dentro tre volte da quanto è magro. Ai piedi, gli scarponi da montagna. Ha la barba lunga e la pelle bianchissima. Gli occhi chiusi. Batte i denti, le mani stringono le spalle come se si abbracciasse da solo. Capisco che ha freddo. E’ strano, è primavera.

“Sta bene?”, gli chiedo.

“No _ mi risponde lo sconosciuto _ ho tanto freddo. Mica hai qualcosa per scaldarsi?”

“Se aspetta ho una felpa in macchina, corro a prenderla ma ci vogliono 10 minuti. Se ha bisogno, vado e torno…”

“No, non ho tempo. Facciamo così, me la dai la mano? Hai la faccia di chi ha le mani calde. Se ti dà fastidio, però, accetto anche un no”.

Io sono socievole ma non così tanto da passeggiare, mano nella mano, con un uomo mai visto prima. Però io e quel signore siamo finiti a camminare, fianco a fianco, guardando la barena alla nostra destra con le isole della laguna sul fondo, lasciandoci alle spalle quel tulipano rosso in mezzo al sentiero.

“Non ti fanno schifo i vermi. Cosa strana _ mi dice il mio accompagnatore dal passo lento _ allora dimmi, a te cosa fa schifo?“

“Le anguille. Sembrano serpenti, a me fanno molto più schifo dei vermi”.

“A me fa schifo il freddo, non ne posso più di avere freddo. E il sangue, ho gli occhi che vedono solo sangue”.

“Malattia?”

“Camminavo per una strada come questa, tornavo a casa. La guerra era finita. Mi sentivo anche bene, dopo mesi di acqua sporca spacciata per minestra e radici cotte; avevo anche mangiato un panino col formaggio e il salame e avevo bevuto un bicchiere di vino rosso. Non vedevo l’ora di tornare a casa e dormire. E sfiorare il braccio della mia donna. Volevo solo quello”.

“E che è successo?”.

“Una camionetta è arrivata alle mie spalle e io, quando ho sentito quel rumore, che lo conosco benissimo, mi sono messo a correre verso il fosso. Ho corso più che potevo. E poi ho sentito un botto, fortissimo. E sono diventato freddo. La granata si era disintegrata e quei pezzetti mi erano entrati dentro l’intestino. C’era sangue dappertutto. E un freddo, mai sentito prima”.

Io lo ascolto ma non so che dire a questo uomo che non molla un attimo la mia mano.

“Neanche quando andavo a pescar vermi da pesca, ore e ore, in barena, con l’acqua fino alle cosce, e scavavo con le mani sul fondo viscido, ho avuto così freddo. Quando pioveva, non si capiva se l’acqua cadeva dall’alto o se rimbalzava dal basso. Beh, è niente rispetto al freddo che mi porto dentro. Non era niente neanche il freddo delle notti di guardia. Lì il freddo mi teneva sveglio, e quando sentivo quel rumore da lontano, quello della camionetta, andavo a chiamare gli altri. E si cominciava a sparare”.

“Gli altri sono venuti a salvarti?”, gli chiedo.

“Mi hanno raccolto dal fosso, io vedevo tutto rosso e il freddo mi faceva così male che non riuscivo neanche ad urlare. Mi hanno portato in un posto. C’erano dei dottori e c’erano i compagni della brigata. E io tenevo gli occhi chiusi perché se li aprivo, vedevo solo rosso, e vedevo loro con le mani tra i capelli. E ho continuato a tenere gli occhi chiusi. E ad aver freddo”.

“Sai, lo facevo anche io da bambina, chiudevo gli occhi, convinta che poi tutto sarebbe stato diverso. Lo facevo quando avevo paura”.

“Ci sono state così tante notti che ho avuto paura di morire. Di fame o ammazzato. Non sai quante volte ho detto: adesso me ne torno a casa, io. Dai miei figli. Ma ho disertato solo una volta, quando ho lasciato l’esercito e sono andato a raggiungere i miei compagni. Non ne potevo più di tutto quello schifo che vedevo, della gente che non aveva di che vivere, che veniva calpestata dagli amici di quelli della camionetta. Sai, parlavano lingue diverse, ma si capivano benissimo. Perché erano uguali. E a noi, che eravamo diversi, ci sono toccati i pidocchi, la fame, le notti insonni, i fucili che si inceppavano e il rinculo che ti rimbombava nelle orecchie per giorni e i pianti per gli amici che abbiamo perso. Ma ce l’abbiamo fatta, sai?”.

E mi ha stretto più forte la mano e io l’ho lasciato fare, anche se sentivo il freddo passarmi dentro la pelle e venir su per il braccio.

“Sì, lo so. Voi ce l’avete fatta”

“E dimmi. Tu ce la fai? Sei libera?”

“La libertà… pensa che oggi gli han dedicato pure un partito…Io…io ci provo ad esserlo. Non dimentico niente e mi incazzo ancora”

“Brava, saresti una ottima compagna per andar a pescar vermi, te. A me quelli che dimenticano mi fanno paura. E quelli che non reagiscono, alla fine, si fan del male da soli. Ma ne ho visti tanti, che ci salutavano coi fiori in mano e poi correvano a far le spie”.

“Senti, ma come ti chiami?”.

“Arturo, ma per tutti sono il partigiano Saetta”.

Mi fermo, gli stringo forte la mano. Con l’altra vorrei sfiorargli il viso, ma ho quasi del pudore. Tiene gli occhi chiusi, potrebbe provar fastidio se lo tocco.

“Tu chi sono io, lo sai, vero? Sei venuto a cercarmi?”.

“Ho pensato che forse tu potevi togliermi ‘sto freddo di dosso. Ma non sapevo dove trovarti. Mi sa che mi hai trovato tu, quando non hai strappato quel tulipano rosso da terra. Mi hai pensato ed eccoci qua”.

“Ti secca se ti abbraccio?”.

“Non hai paura di tutto questo freddo, tu?”.

“Sì, ma chiudo gli occhi con te”.

C’è una foto nell’album di mio padre, che è così privata che non la vede nessuno. Io l’ho intravista una volta sola, mentre passava di mano in mano, ma ho fatto in tempo a stamparmela in testa. Si vede un corteo con decine di uomini con il fucile in spalla, che camminano lenti, al centro c’è un carretto e sopra una bara. Gli uomini scortano la bara. Non ci sono donne. Sopra il legno della cassa non ci sono fiori. Ci sono solo fucili in quella foto e volti di uomini, in bianco e nero.
In quella bara c’è mio nonno. Morto il 26 aprile del 1945. Ucciso da un commando tedesco mentre tornava a casa.


26×1

aprile 23, 2010


La beffa

aprile 13, 2010

Io stringevo la mano a Mario, seduti in terza fila. Lui mi guardava come se fossi stata la coppa conquistata al torneo di tennis. Io gli sorridevo e vedevo come sarebbe stata la mia vita al suo fianco. Per me era come vedere una valigia piena di soldi, che camminava con l’aria sbruffona di chi sa farcela. Sempre.
Ero giovane, allora, ed ero stufa, a vent’anni, di vivere con le pezze al culo. Mia madre mi
diceva sempre di pensare al domani e non all’oggi, che era pieno di dolore e paura e schifo.
“Con gli occhi azzurri che hai, devi pensar al domani”, mi diceva.
E io quando ho visto Mario dal panettiere superare la fila senza un minimo di timore,
con il petto all’infuori e il passo copiato dai gerarchi, mi son detta: “Eccolo, il futuro”. Grosso, come una valigia piena di soldi. Gli ho sorriso quel giorno mentre se ne usciva dal fornaio con il filone sotto il braccio. Lui è passato oltre, poi ha fatto un passo indietro.
“Ti piace il pane?”, mi ha detto.
E io ho annuito. “Ti piace duro?” E io ho abbassato gli occhi.
Poi quando mi ha riaccompagnato a casa ed ha deviato strada all’improvviso, sbagliando calle, a caso pensavo, io, ho capito cosa intendeva con quella domanda. Dopo tre giorni, mi sentivo una regina, un pochino sporca, quando tornavo a casa la sera, ma sempre una regina.
Poi mi ha detto: “Ti porto a teatro”. E io ho cominciato a saltellare che al Goldoni non c’ero stata mai, perché a casa mia non avevano soldi per andar a vedere le commedie. Al massimo
si stava fuori a curiosare per vedere chi entrava e come erano vestite le signore.

Quella mattina corsi a casa, raccontai tutto a mia madre e lei andò dalla sua amica fruttivendola, la Rina. E tornò col suo vestito da sposa. Quello che si era fatta fare e che mai aveva usato perché era rimasta incinta e il Gino poi era sparito a due giorni dalle nozze. Era bianco, liscio, con un fiocco sul collo e un altro in vita. Mi arrivava sotto al ginocchio.
Perfetto.
Lo buttarono dentro una mastella con delle polveri e uscì una specie di color cipria.
Dovevo esser perfetta, dicevano la Rina e mia madre, tutte prese dai preparativi.
E così quella sera sono andata, vestita da sposina color cipria, al Goldoni al braccio
del Mario, uno che tutti temevano perché tramacciava al mercato nero e faceva il saluto romano. Era un buon partito, il migliore in tempo di guerra, disse mia madre. “Sorridi e non dire nulla”, mi consigliò. Mio padre mentre uscivo di casa tirò una bestemmia e aprì il fiasco del vino.

Arrivati davanti al Goldoni, tirai un sospiro di sollievo e entrai sperando di non inciampare per l’emozione. Elena Zareschi, 27 anni, sette più di me, recitava nel “Vestire gli ignudi” di Pirandello. Mai sentito nominare ma Mario disse che era uno famoso. Avevo occhi solo per lei, per la Elena. Bellissima.
E la storia di Ersilia, la protagonista, mi commosse al punto che Mario dovette passarmi
un fazzoletto. Ersilia accettò le lusinghe del padrone di casa e mentre faceva l’amore con lui, sperando in una vita non da serva ma da signora, la bimba che doveva accudire precipitò da una terrazza morendo. E allora per salvarsi dai rimorsi e dal disonore la Ersilia raccontò una storia falsa, si inventò un amore rovinato dal fidanzato fuggito, proprio come la Rina. E io mi sentivo nuda come lei.
All’improvviso, però, la Zareschi, sul palco, si zittì e indietreggiò all’arrivo di un gruppo di uomini armati. In platea, piena di gerarchi nazisti e fascisti amici di Mario, il brusio si alzò.
Tutti pensarono ad una trovata del regista, e io strinsi forte il braccio di Mario aspettando la sorpresa, con gli occhi da bambina.
Poi gli uomini sul palco diventarono sette e spuntarono le pistole e arrivò lui. Serio, lo sguardo fiero che sfidava la platea.
Lo riconobbi, lo avevo visto in piazza San Marco parlare con un gruppo di uomini e ragazzi di libertà. Io mi fermai quella volta ad ascoltare. E lui mi sorrise, con gli occhi. Una cosa che Mario mica sapeva fare. Sorridere con gli occhi.
Poi parlò.
«Veneziani, l’ultimo quarto d’ora per Hitler e i traditori fascisti sta per scoccare. Lottate con noi per la causa della Liberazione nazionale e per lo schiacciamento definitivo del nazifascismo. La Liberazione è vicina! Stringetevi intorno al Comitato di Liberazione Nazionale e alle bandiere degli eroici partigiani che combattono per la libertà d’Italia dal giogo nazifascista. Noi lottiamo per poter garantire, attraverso la democrazia progressiva e l’unità di tutti i partiti antifascisti, l’avvenire e la ricostruzione della nostra Patria. A morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della Gioventù!».
Poi lanciarono dei manifestini in aria e fuggirono tutti via, dopo che il Moro, in scena, abbozzò un inchino chiedendo scusa a bassa voce e gli attori abbassarono gli occhi, come per dire “Abbiamo capito”.
I gerarchi e i fascisti, allibiti ,cercarono di reagire in qualche modo.
C’era chi agitava il pugno in aria urlando “Bastardi”, chi alzava il braccio al cielo per il saluto romano e promettendo vendetta. Le porte della sala erano sprangate e se qualcuno avesse sparato sarebbe stata una mattanza, lo so. Io c’ero. Impietrita dallo stupore guardai quei ragazzi scappare e presi al volo uno dei volantini lanciati.
Lessi quella parola, libertà, ripetuta più volte, e pensai a lui, al ragazzo con gli occhi che ridono. Mario mi strappò di mano quel volantino e mi urlò che ero una puttana.
Non avevo mai visto un partigiano prima di quella sera.
Non vidi mai più il Mario dopo quella sera. Scelsi la libertà, la mia.
Mio padre smise di bere.

Questo racconto è liberamente ispirato dalla “beffa” del teatro Goldoni. Fu realizzata la sera del 12 marzo 1945 a Venezia da un piccolo gruppo di partigiani della Brigata “Biancotto”: durante la recita di “Vestire gli ignudi” di Pirandello. essi irruppero nel Teatro, tenendo sotto il tiro delle pistole soldati tedeschi e fascisti; dal palcoscenico Cesco Chinello pronunciò un appello alla resistenza e alla lotta, annunciando la vicina liberazione; prima di allontanarsi indisturbati, i partigiani lanciarono pacchi di manifestini. La notizia della “beffa” fu divulgata in tutta Europa dalle radio dei Paesi liberi.


Una informazione

aprile 13, 2010

In questo libro sono finita anche io, con tre racconti presi da questo blog.
E’ la prima volta che un mio racconto finisce su carta e scusatemi, ma oggi ho il sorriso ebete

Su Anobii è qui:
http://www.anobii.com/books/Parla_come_navighi/9788876062643/01f526c0e03eea75e1/


Toelettatura

aprile 3, 2010

Quel pezzo di carta gli è caduto dalla tasca, io l’ho visto subito ma non ho detto niente.
Volevo vedere se quel tipo se ne accorgeva da solo. No, vabbé , non devo dire le bugie.
Quel tipo mi sta così antipatico che sinceramente non lo aiuterei manco se me lo chiedesse strisciando.
Anche il suo cane, un pitbull bianco, con l’occhio nero, un tipo grosso ma tonto, credetemi, ha fatto finta di niente. Gli era a fianco, ha visto cadere il foglietto di tasca al suo padrone mentre uscivano dalla porta del negozio, e non ha fatto niente.
Non si è fermato, tirando il guinzaglio e costringendolo a bloccarsi. Se l’avesse fatto, quel tipo avrebbe guardato per terra e si sarebbe accorto del foglietto. Ha lasciato fare pure il cane e allora vuol dire che va bene così, che doveva succedere che lo perdeva.
Io lo vedo il biglietto per terra, sul marciapiede davanti al negozio.
Sto fermo e guardo che succede. Vediamo se se ne accorge, quell’antipatico e torna indietro. Se lo fa, è perché è un tirchio, di quelli attaccati al soldo. E’ evidente, uno che ha il Suv e che si tiene in casa un pittbull che mangia almeno un chilo di carne al giorno e poi viene qua e tira su una lagna di mezz’ora perché vuole lo sconto sulla toelettatura della bestia, è uno spilorcio. E poi mi han detto, nel quartiere, che quello è uno che è pure malvagio, che non presterebbe un soldo neanche al suo miglior amico.
Occhio, sento dei passi. Arriva della gente… No, non è lui.Sono in cinque, sembrano una famiglia. Padre, madre e tre ragazzi. Il padre ha la faccia simpatica di uno che ha passato tante ore con gli scout e davanti ai libri. I figli hanno i capelli lunghi alle spalle come si portano adesso, la moglie sorride guardando la vetrina. Eccoli che passano. Passeggiano sereni, ridendo. Senza cane al guinzaglio. Un passo e il padre appoggia il piede a 5 centimetri dal biglietto sul marciapiede.
“Toh…dieci euro”. Ha il tono di voce di chi è piacevolmente sorpreso e dà valore a quel che trova. Si ferma, raccoglie il foglietto e lo passa al ragazzino più giovane che tutto contento se lo infila in tasca.
Dieci euro. Con quelli ci compri quattro confezioni di biscotti da mezzo chilo per cani.
Neanche male, vero? Ho fatto una buona azione. Il cane che hanno a casa sarà contento. Se lo dicevo all’uomo che aveva perso quel foglietto o se ne accorgeva il suo cane, adesso questo ragazzino non sarebbe tutto contento a dirsi che è anche lui un pochino fortunato, perché oggi passeggiando gli è capitato di trovare, non uno, ma dieci euro. Che ci compri quattro confezioni di biscotti da mezzo chilo, eh. Di quelli ripieni, con la carne.
Poi penso: forse quella famiglia manco ce l’ha un cane, perché non è detto che tutti amino i cani, con i loro modi giocherelloni e il carattere imprevedibile. I cani son pretenziosi, mica sono i gatti che si arrangiano e, se vogliono, vengono a farsi accarezzare e se no, vanno a farsi un giro. I cani, mica facile capirli: il padrone è il capo branco, che dà l’esempio, e che
fornisce tutto l’amore necessario, e le regole, e la serenità, affinché tutto vada bene. E’ bene capirlo subito. E loro, i cani, vi danno loro stessi, in cambio.
Mica cotiche…Se penso ancora al cibo, mi mangio il tavolo dalla fame che ho…

Forse quella famiglia, a casa, un cane non ce l’ha ma tutti lo vogliono. Sentono che essere in cinque è bello ma si sentono imperfetti, che manca il sesto, quello con il naso umido, a garantire la perfezione del gruppo.
E allora con dieci euro compreranno quattro confezioni di biscotti ripieni di carne per la cagna che andranno a prendere al canile Municipale, penso, la prossima settimana. Andranno a passeggiare tra le gabbie, finché non la vedranno, seduta in un angolo davanti alla ciotola con l’acqua. Lei, annoiata, alzerà il muso davanti all’improvvisa ombra prodotta davanti alla cuccia dal loro passaggio. E lo vedrà, il suo maschio Alfa, il ragazzino dei dieci euro.
Lei guarderà lui, lui guarderà lei. E sarà amore. Per sempre.
Lo so come va perché è successo anche a me ed è l’unica forma di colpo di fulmine che io possa considerare possibile nel rapporto tra uomo e animale.
E non c’entra quella cosa dell’imprinting, quello vale quando vieni al mondo, apri gli occhi e vedi chi sarà la tua famiglia. E non sempre sei fortunato.
No, questo succede quando l’animale ha già superato questo stadio, magari ha vissuto con gente che gli animali li maltratta e poi si è salvato ed è finito, solo, ma vivo, dietro le sbarre di un canile. Meglio lì che con certi personaggi che annullano l’istintività.
Un po’ come fanno certi umani con altri umani.
Ecco perché son contento che quel tipo, quello che è uscito trascinandosi al guinzaglio il pitbull bianco, appena lavato, abbia perso quei soldi. Son contento che abbia perso qualcosa che ha fatto contento qualcun altro senza che ci fosse di mezzo il suo brutto muso, da rinfacciatore professionista.
Che ne conosco tanti così, che spacciano la grazia, la gentilezza con il valore di una banconota.
Mi sta antipatico quel tipo e neanche al suo cane piace troppo. Non lo guarda mai in faccia, il cane, a lui. Quel pittbull sta assieme a quell’uomo perché gli tocca. E’ stato scelto, non ha scelto.
Basta vedere come se ne sono andati via. Non sono usciti assieme. Prima è uscito quel tipo, con la giacca di pelle che puzza di naftalina, e la camicia nera, sotto, aperta che mostra il petto pieno di pelo e il catenone con la Madonna. Un catenone enorme. Che io quando l’ho visto mi sono anche messo a ridere, tra me e me, perché mi pareva che il guinzaglio lo portasse lui, non il pitbull bianco. Che si chiama Toni. Tralascio ogni ulteriore commento…
Insomma dicevo, prima è uscito lui e poi ha tirato il guinzaglio così forte che Toni, che era intento a guardarmi da davanti a dietro, ha dovuto seguirlo sennò ci restava lì, per terra, strozzato e mi ha guardato come per dirmi se ci rivedavamo presto, vero?
Ecco io il povero Toni lo rivedrei con piacere. C’ha un testone enorme e una bocca che io ci entrerei dentro tutto ma è un bonaccione.
Il suo padrone, no, c’ha un cattivo odore e gli occhi troppo piccoli per essere uno buono.

Sì, sono Lombrosiano. Io alla fisiognomica un pochino ci credo. Gli uomini si credono tanto diversi dai cani , e in fatto di istintività è vero, ma sulla fisiognomica, c’è poco da scherzarci su. Perché i cani si sono evoluti. Hanno i geni da lupi dentro, certo, che creano un sacco di casini interiori quando c’è la luna piena, quando hanno voglia di code di lucertole che è come una droga, credetemi; quando l’istinto ricorda loro che l’osso va nascosto per i tempi di magra sotto la pianta, con la terra bella fresca, quella appena messa nel vaso nuovo.
Ma ogni cane ha un suo carattere e questo lo vedi dal muso.
Volpini? Eleganti e un pochino snob.
Pastori tedeschi? Fedeli ma eccessivamente territoriali.
Barboncini? Troppi problemi psicologici.
Labrador? Compagnoni perfetti per una scampagnata e baby-sitter impagabili.
Anche gli uomini sono così. Ne guardi la faccia e capisci un sacco di cose.
Prendiamo Elena, la mia amica Elena. Quando l’ho vista la prima volta eravamo al canile. Lei cercava un labrador perché voleva un animale docile e amorevole. Io ero nella gabbia intento a rovesciare la ciotola con il mangiare vecchio di tre giorni, che puzzava come una capra morta. Non ho mai visto una capra morta eppure penso che abbia quell’odore lì.
Me la sono trovata all’improvviso alle spalle, Elena, e quando mi sono girato e le ho visto gli occhi, così blu, sono rimasto inebetito a pensare che mi sarebbe tanto piaciuto fare un bagno in mare. Io che non avevo mai visto il mare.
Con Elena al mare ci vado spesso, pure a lei piace tanto. E ci divertiamo. E lei si è abituata al fatto di non avere un labrador. Avevo proprio ragione, stiamo bene assieme.
Non mi fa dormire a letto con lei, ma io spesso mi addormento sul tappeto, così la guardo e le sento il fiato di notte. Andiamo al negozio di toelettatura e io le sto sempre vicino, così nessuno le fa del male.
Quando siamo a casa, mi fa guardare i suoi libri disegnati sul tavolo della cucina. E io guardo le figure e sto bene e poi corro a rotolarmi sul tappeto, che ho la testa piena di immagini.
E quando dorme, la Elena, e tiene gli occhi blu chiusi, io un pochino ci sto male che non posso fare rumore, con il mio vocione da pastore tedesco, perché vorrei ulularle agli occhi, ogni sera.